

Per cinque giorni, il monolocale si fa itinerante...

Al ritorno vi racconteremo le peripezie (ché ce ne saranno, di peripezie...)
Si tratta di una particolare varietà di caffè che, come dice il nome stesso, cresce ad un’altitudine insolita per le coltivazioni di arabica (a 1900 m slm) grazie alla particolare conformazione geologica ed alla localizzazione geografica della catena montuosa di Huehuetenango, la più alta non vulcanica del Centro America.
Là il caffè (cru di tre cultivar diversi) viene coltivata dalle popolazioni autoctone (di undici etnie diverse) . Un monumento alla biodiversità, questo caffè!
Il Guatemala è il principale produttore centroamericano di caffè ma, ciononostante, è uno dei Paesi più poveri del mondo, poiché il mercato è quasi prevalentemente nelle mani delle grandi multinazionali.
Il progetto del Presidio punta alla protezione delle dinamiche di raccolta e macerazione (del tutto naturali e conservatesi dai tempi dei Maya) ma soprattutto dei produttori, che ricevono la metà degli introiti e vengono supportati sul posto non solo per quanto riguarda la produzione ma anche per tutto un corollario di attività socialmente utili, prima tra tutte l’alfabetizzazione dei bambini e l’insegnamento del mestiere acciocché non scompaia.
A coordinare la produzione è una cooperativa, Pausa Café, che ha sede a Torino e che si occupa, oltre che dell’assistenza ai produttori, del trasporto senza intermediazioni in Italia e, qui, della torrefazione.
La torrefazione avviene infatti nella casa circondariale di Lorusso e Cotugno, a Torino, grazie all’impegno di torrefattori professionisti affiancati da detenuti appositamente formati.
Si tratta di un’opportunità dal grande peso sociale, quella offerta dai soci della Cooperativa, che permettono ai detenuti di imparare un mestiere nobile quale quello del torrefattore offrendo una possibilità di impiego futura.
Protagonista assoluto, oltre al Caffè, è stato lo chef Mirko Pipponzi, giovane e geniale padrone di casa del Ristorante Goloso Curioso di Civitavecchia, che ieri sera ci ha ospitati raccogliendo la sfida di preparare un menù nel quale comparisse, in ogni portata, il nostro amico caffè.
Abbiamo iniziato con una soffice di cavolfiore e chips di parmigiano al caffè, annaffiata con gradevoli bollicine.
Poi siamo passati ad una zuppa tiepida di limone con scaloppine di pesce spada al caffè e fiore di nasturzio (che per chi non lo conoscesse è questo) alla tempura.
È seguito un risotto bianco con capperi di Pantelleria e polvere di caffè.
In un’escalation orgiastica dei sensi siamo passati al pescato del giorno in crosta di mandorle e finocchi con succo di clementine e caffè. A questi tre piatti è stata abbinata una Vernaccia di San Gimignano riserva 03 (Passoni).
Per concludere (o quasi) un delizioso tiramisù.
La vera conclusione non poteva che giungere infatti con un ottima tazzina di caffè accompagnata da squisite coccole.
Come cadeau della serata (e augurio di Buon Natale) abbiamo omaggiato gli amici che hanno partecipato con (che originalità!) una confezione del Caffè protagonista, cosicché possano riprodurre a casa le emozioni che speriamo questa serata gli abbia regalato.
Nel pacchetto regalo c’era anche una ricetta preparata appositamente dal sorprendente Mirko per far cimentare gli ospiti anche nelle loro cucine con il Caffè delle Terre Alte di Huehuetenango.
L’arguzia e l’esperienza non si comprano al mercato tra gli scaffali dei pescatori dalla faccia onesta o gli ortolani con il viso scavato dalle rughe, questo lo sanno anche i bambini, che credano a Babbo Natale o meno. Loro, che sono più furbi, le hanno scovate in offerta a 99 centesimi il paio all’Euromarket, tra il banco dei frutti di mare congelati e le confezioni sgargianti di gamberoni malesi.
Per la serata più importante dell’anno – se non altro perché degna conclusione – non hanno voluto lasciare nulla al caso, giungendo financo a premeditare ogni mossa.
Metà del successo di un cuoco di successo (in questo caso di un team intero, mica pizza e fichi) viene dalla scelta delle materie prime.
I meno geniali si concentrerebbero sulla qualità, tralasciando il resto. Ma a catturare gli occhi sono quantità e colore, e questo lo sanno anche i Babbi Natali, che credano ai bimbi che gli scrivono le letterine o meno.
Perciò si sono riempiti carrelli di funghi sottolio e truciolato di falegname, panini cartonati e mezzelune di granchio o sedicente tale, fusilli in packaging anonimi e confezioni intere di salmoni a fette della Papuasia, arancione di un arancione fosforescente, luminoso.
Avviluppati nel loro spleen culinario hanno portato dallo scaffale alla cassa, creando una catena di montaggio meritevole dell’apprezzamento sbigottito degli avventori del discount conclusasi con un accorato applauso con standing ovation di ventidue minuti, confezioni su confezioni di pandoro melecani, panettoni rigorosamente senza canditi, torroni tosti come il comprendonio di certa gente dura di comprendonio e altre cianfrusaglie sottomarca, ché sottomarca, e questo lo sanno anche i postini che recapitano le letterine dei bambini a Babbo Natale, vuol dire ineluttabilmente miglior scelta: qualità mediocre, sì, ma che prezzi!
Il capolavoro lo ha compiuto però il più esperto tra i membri del team, recandosi alla cassa portando in spalla un paccone da ventidue chilogrammi di verdure mediterranee già tagliate e surgelate, suscitando “oooh” di stupore e due o tre strizzatine d’occhio osé da parte di cassiere ipertruccate e dall’accento greve.
La preparazione del pantagruelico banchetto, l’avessi vista, t’avrebbe tolto ogni parola, lasciandoti in balia di uno stupore prodigioso. In un trionfo di grazia e veemenza avevano assemblato migliaia di tartine, milioni di stuzzichini, tranci su tranci di carne sottomarca – nello specifico spiedini di sottomaiale e cosciotti di sottopollo – e bolognesissime lasagne, ché la semplicità è la virtù dei forti.
Solo sulle lenticchie gli si poteva rimproverare una sbavatura, tutt’altro che imperdonabile, anche perché le sottolenticchie dove le trovi? Neanche ad Euromarket dove una volta le vendevano a 10 centesimi il quintale, ahinoi.
Gliela puoi vedere dipinta sul volto, la soddisfazione, al team delle meraviglie, ora che le lancette corrono all’impazzata verso la mezzanotte e ognuno ha ormai in mano la sua bottiglia di pseudosciampagna da agitare e alla quale far saltare il tappo ora che tre, due, uno, viva l’anno nuovo!
I primi arrivati, quelli sì furbescamente, la bottiglia di veuve-clicquot ponsardin l’hanno nascosta sotto la coltre di cappotti, visto l’andazzo.
“Un altro capodanno è passato”, ti dice uno del team mentre ti stringe la mano e ti bacia sulle guance dandoti gli auguri.
“Ringraziando il cielo”, rispondi tu, lasciandoti ingannare dalle apparenze tramutatesi in realtà.
Ti diranno che sei stolto.
Lasciali fare.
In questo periodo non ho molto tempo per prepararmi il pranzo, quindi scelgo sempre piatti semplici e veloci...questa è una piccola torta rustica che volendo potete fare di diverse forme...secondo me dei fagottini sarebbero ottimi.
Gli ingredienti sono:
Pasta sfoglia (io uso quella già pronta Buitoni)
Erbette (spinacini, cicorietta,scarola...decidete voi il giusto mix)
Taleggio
Si fodera lo stampo con la pasta sfoglia, si condiscono le erbette con sale, olio e pepe, ci si aggiungono cubotti di Taleggio e si scaravolta il preparato nello stampo. Io l'ho chiusa lasciando un pezzettino aperto al centro, se la sigilate abbiate l'accortezza con una forchetta di praticare dei forellini. Per rendere l'esterno più dorato e croccante pessateci sopra un tuorlo d'uovo.
Forno a 190° per 20' circa.
Al call center, poi, mi è toccato andare per davvero. Quattrocento euro al mese, netti.
La legge di Engel dice che la percentuale delle spese alimentari rispetto al reddito è tanto maggiore quanto quest’ultimo è minore.
“Poco male”, penso allora, disamorandomi subitaneamente di schermi al plasma e bigiotterie, sfizi estemporanei e – francamente – evitabili.
Se devo investire quattrocento euro in pani caldi e salumi dall’aroma inebriante, pecorini di fossa e sangiovesi imbottigliati con artigiana devozione, lo faccio col sorriso sulle labbra.
Certo è che non mi faccio incastrare nei labirinti perversi della pietanza precotta, del pane in cassetta, dei quattro salti nelle stoviglie. O peggio ancora, dei panini uguali in tutto il mondo.
Non annaspo nell’appiccicosa palude del tavernello.
Rifiuto la ribalta catodica pur di non convenire con Fazzuoli che il vino si conserva meglio in Tetrabrik che in vetro. “Neanche morto al vostro pseudo talk show!, dico. “E vi invito a riflettere.”.
Mangerei senza preoccuparmi di nulla, solo di mangiare ed assaporare e stuzzicare le papille, le uniche entusiaste di una vita sussiegosa e senza scosse.
Al “lavoro”, rispondo al telefono fornendo indicazioni e consigli.
Nel girone dei precari, il contrappasso è convincere il consumatore della convenienza della fedeltà perpetua con stucchevoli convenevoli.
A volte mi strillano contro con toni cattivi. Lo stomaco brontola, i succhi gastrici corrodono le pareti in uno tsunami endogeno.
Quando torno a casa la trovo, la mia donna, impegnata a stendere articoli sulla soddisfazione dei negozianti per l’afflusso nel periodo dei saldi. “Costa cinque euro a cartella, la gloria?”, mi chiede sconsolata.
Lei, ai negozi che fanno i saldi, non c’è neanche andata.
Per cena ha preparato il brodo, e poi il lesso, con le carote e le patate, come piace a me.
Prima di apparecchiare, sgombra il tavolo dai rimasugli della preparazione. Ripone in frigo una punta di carota sbucciata, mezza patata.
“Per domani”, mi dice.
“Per sempre”, penso sedendomi.
A mia nonna, quando era bambina, una suora diceva sempre: “Una donna non è donna se non sa mettere da parte mezza patata”.
Se è un paradigma valido, mi chiedo allora che donna è, questa che ho di fronte, incapace anche di fare di necessità virtù.
Le ho appena detto che l’azienda chiude, ci mettono in mezzo a una strada, che siamo incazzati e che il futuro è in quel posto al call center, il tempio dei precari. Perché questa – lo dicono le statistiche ma ce ne siamo accorti anche senza Del Debbio – è l’epoca dei precari, e per un bizzoso scherzo del destino e dell’enigmistica, per giunta, dei prezzi iper-cari.
Lei, mentre le parlavo, si appassionava al gioco dei mezzibusti milionari e vaneggiava sui regali di Natale, sul ponte dell’Immacolata, su spropositate congetture di viaggi ed irrealizzabili itinerari.
Ora la osservo sconsolata gettare nella pattumiera spaghetti avanzati ed incollati alla pentola, bistecche fredde e rigide come cadaveri, rosette intere. Queste due fette di prosciutto le mangi?, mi chiede. No, non le mangio. Ho lo stomaco chiuso.
Allora le butta.
Butta tutto, lei. Anche i miei discorsi, che puzzano come la faraona lasciata in frigorifero per una settimana.
Ci appiccichiamo alla televisione in un trionfo dello stereotipo, annoiato io, avvinta lei. Lontani, rigorosamente. Scivoliamo mollemente nella melensa appiccicosità di una serata xerox-style, uguale a tutte le altre, manco fossero ciclostilate. Vissuta una, vissute tutte.
Una volta era diversa, lei.
Curiosava.
Insieme bevevamo blu curaçao, sgranocchiavamo pane carasau, guardavamo i film di Akira Kurosawa.
“Cara, sai…” le ho detto una volta, e lei s’è girata e m’ha fulminato con quei suoi occhi nei quali pensavo d’aver trovato le risposte di cui avevo bisogno. Avrei voluto aggiungere “…sarà per sempre”, ma ho resistito.
Quella donna, per essere la mia donna, doveva passare la prova della mezza patata.
(continua...)