lunedì, giugno 18, 2007

Fegato


Sua nonna gliel’aveva raccontata così:
“Una vecchietta va dal macellaio.
Ao, cell’hai er fegato? – gli chiede.
E lui – Certo signò! –.
E lei: - Allora… damme n’bacio n’bocca! -.”
Quei puntini di sospensione erano la sottile linea rossa tra l’essere un ragazzino ed un grandicello.

Ma lui lo avrebbe scoperto solo anni dopo, quando raccontando la barzelletta nella comitiva di bulletti di periferia aveva guadagnato honoris causa la palma di zimbello.
La dimostrazione di coraggio del macellaio stava nel baciare ben altre labbra, ma nonna aveva chiaramente pensato bene di ometterlo.

Il fegato, nel medioevo – ed in alcune visioni orientaleggianti rispolverate di recente dalla new age – ha conteso al cuore l’invidiabile proprietà d’essere contenitore dell’amore e della passione, del coraggio e dell’audacia. Donde le espressioni “Avere fegato, Essere di fegato”. Oppure “Rodersi il fegato”.
Ne senti il nome e te lo immagini lì, bello rosso, adagiato all’interno della vetrina del macellaio, quasi pulsante di rabbia.
Un fegato bianco non potrebbe contenere tutta la collera e l’audacia del mondo.
Un fegato pallido è il fegato di un codardo.
E infatti Shakespeare, nel Macbeth, addita quello dicendogli “Thou lily-livered boy” (v.3).

Le oche, invece, i sentimenti nobili e quelli di rivalsa devono averli nel becco, o forse sotto le dita palmate. Poveraccie!
Sennò sai quanto si incavolerebbero! La collera monterebbe di pari passo con il foie che si fa gras, e la rivolta potrebbe essere fulminea e violenta, così come paventato tempo addietro (proprio sotto Pasqua) con i candidi graziosi agnellini.

Fegato viene dal latino ficàtum, fico. Forse perché il sapore dolciastro di questo organo ricordava ai primi assaggiatori quello del frutto tanto amato dai romani, forse perché è di fichi che venivano ingozzate le oche, senza che mai una volta si inalberassero.

Stavano lì, vedevano arrivare il contadino ed aprivano il becco, rassegnate al loro destino.
“Che vuoi fare, ci vuole fegato!”, diceva sempre una di loro, quella con più esperienza, alla compagna d’aia terrorizzata. Per rasserenarla, poi, le raccontava la storiella di quella vecchina che va dal macellaio…


PS
Devo l’ispirazione per questo divertissement ad alcune immagini evocative in materia sciorinate l’altra sera in compagnia di questo, questa, questa e quest’altro simpatici colleghi di penna e pentole – ironia vuole – proprio qualche centimetro più in su del fegato, ovvero da Cuore.
Che, tra l’altro, è uno di quei posti nei quali il palato (più su) gode sempre in maniera proporzionale alla testa (ancora più su!), tanto è stimolante la cucina e la filosofia del patron
Mara.

1 commento:

daniela ha detto...

bellissima fotografia…