Me lo sono gustato in terrazza proprio pochi minuti fa...l'arietta frizzante e il mio vicino che suonava il sax hanno fatto il resto!!!
Questa è la stessa foto ma è scattata senza flash...purtroppo è venuta mossa però come colori rende di più!
Me lo sono gustato in terrazza proprio pochi minuti fa...l'arietta frizzante e il mio vicino che suonava il sax hanno fatto il resto!!!

Ieri sera avevo preparato l'insalata di cetroli di una varietà particolare che rimane più leggera, dolce e delicata...veramente ottimi dovete provarli!
Immaginatevi nell’antica Grecia, presi nell’atto di pronunciarvi su chi debba essere punito con un esilio dall’Acropoli (e si trattava di esili forzati dai cinque ai dieci anni, mica due giorni!)…
Bene, sicuramente starete vergando il tutto su un supporto scrittorio chiamato Ostraka. Che consiste in un frammento di vasellame di terracotta, nulla più.
Il suo nome deriva dal greco Ostrakon, il cui vero significato è conchiglia. Per estensione, si è chiamata conchiglia quel supporto di voto. Probabilmente perché la forma non ne era dissimile. Concetto ostico? Non abbiate ostracismi!
L’etimologia è fin troppo semplice. L’Ostrica – o quantomeno il suo nome – nasce proprio lì. Ed i greci ne avevano ben chiara l’esistenza, così come i Romani che ne iniziarono addirittura l’allevamento.
Plinio il Vecchio presentava così i primi allevamenti di ostriche nel lago Lucrino (oggi in provincia di Avellino): “Primo fra tutti, Sergio Orata ideò dei vivai di ostriche a Baiano […] spinto non dalla ghiottoneria ma da interessi commerciali…”
Ben altra l’origine invece dell’esclamazione (tipicamente veneta, per la verità, ma l’ho sentita anche nella variante italiano standard) òstrega!
Qua nessun riferimento all’affascinante crostaceo, invece, poiché trattasi di una corruzione di “ostia”, dotata di troppa sacralità per essere usata come esclamazione di sorpresa o stupore. Dato il carattere blasfemo del tirare in ballo il corpo transustanziaziato di Cristo, allora, si usa òstrega! così come osteria!
Quando la semi-blasfemia passa per la tavola.
Ma se lo avessi fatto, chi sarebbe venuto poi a passare una domenica pomeriggio qua????


Sua nonna gliel’aveva raccontata così:
“Una vecchietta va dal macellaio.
– Ao, cell’hai er fegato? – gli chiede.
E lui – Certo signò! –.
E lei: - Allora… damme n’bacio n’bocca! -.”
Ma lui lo avrebbe scoperto solo anni dopo, quando raccontando la barzelletta nella comitiva di bulletti di periferia aveva guadagnato honoris causa la palma di zimbello.
La dimostrazione di coraggio del macellaio stava nel baciare ben altre labbra, ma nonna aveva chiaramente pensato bene di ometterlo.
Il fegato, nel medioevo – ed in alcune visioni orientaleggianti rispolverate di recente dalla new age – ha conteso al cuore l’invidiabile proprietà d’essere contenitore dell’amore e della passione, del coraggio e dell’audacia. Donde le espressioni “Avere fegato, Essere di fegato”. Oppure “Rodersi il fegato”.
Ne senti il nome e te lo immagini lì, bello rosso, adagiato all’interno della vetrina del macellaio, quasi pulsante di rabbia.
Un fegato bianco non potrebbe contenere tutta la collera e l’audacia del mondo.
Un fegato pallido è il fegato di un codardo.
E infatti Shakespeare, nel Macbeth, addita quello dicendogli “Thou lily-livered boy” (v.3).
Le oche, invece, i sentimenti nobili e quelli di rivalsa devono averli nel becco, o forse sotto le dita palmate. Poveraccie!
Sennò sai quanto si incavolerebbero! La collera monterebbe di pari passo con il foie che si fa gras, e la rivolta potrebbe essere fulminea e violenta, così come paventato tempo addietro (proprio sotto Pasqua) con i candidi graziosi agnellini.
Stavano lì, vedevano arrivare il contadino ed aprivano il becco, rassegnate al loro destino.
PS
Devo l’ispirazione per questo divertissement ad alcune immagini evocative in materia sciorinate l’altra sera in compagnia di questo, questa, questa e quest’altro simpatici colleghi di penna e pentole – ironia vuole – proprio qualche centimetro più in su del fegato, ovvero da Cuore.
Che, tra l’altro, è uno di quei posti nei quali il palato (più su) gode sempre in maniera proporzionale alla testa (ancora più su!), tanto è stimolante la cucina e la filosofia del patron Mara.
...e proprio nel giorno in cui il pranzo - per cause di forza maggiore - è posticipato al primo pomeriggio, ci capita di passare per Monteromano e - ovviamente - comprare una pagnotta di quelle rùushtiche (come dicono là!)...
Questo è un piatto tipico delle mie parti (anche se per ogni porto ci sarà una ricetta simile!)...per prepararlo occorrono pochi gesti ed ingredienti...solo una cosa è necessaria: il pesce deve essere freschissimo! Sguardo limpido e lucente, branchie rubino e corpo sodo!
Per tutto il tempo che impiegammo ad attraversare il Meir parlammo di ragazze.
Giunti a Groen-plats, davanti ad un cartoccio di frites, di calcio.
Proprio davanti alla statua di Brabante che getta la mano del gigante despota verso le facciate bidimensionali dei palazzi che si affacciano su Groet-Markt, ci facemmo reciprocamente un riassunto sintetico – e in quanto tale plastificato – delle nostre pur brevi esistenze.
Inevitabilmente, poggiati al parapetto a strapiombo su una Schelda che lenta defluiva, finimmo per parlare di cibo.
Non aveva i muscoli, Christopher detto Chris, ma se era per quello, neanche io.
Però avevamo due bei cervelli, sulla stessa lunghezza d’onda, per giunta.
Avevo fortemente immaginato che in quel pomeriggio ci saremmo giocati tutte le cartucce conversazionali di cui disponevamo. E che fossimo rimasti senza niente più da condividere, se non quindici giorni di un roventissimo fine-aprile civitasvetulino.
Di carni e di pesci, pani e cioccolati si parlò su quella terrazza, con il chiosco stile liberty situato sull’estremità del molo che cominciò a strepitare quando la pioggia leggera – ad Anversa piove sempre, e quando non piove pioviggina – prese a tamburellare sul suo tetto di ghisa.
Il giorno dopo saremmo partiti per l’Italia, si andava a casa mia ed avevamo voluto ritagliarci un pomeriggio per anticipare la conoscenza, dato che durante le due settimane di scambio culturale al Vanceelst Instituut avevo convissuto con un tale di Lier al quale avevo mostrato tutti i miei lati peggiori e di Chris non avevo ancora visto da vicino né i muscoli – d’altronde non ne aveva, ma neanch’io, tant’è – né il cervello.
Che poi Chris sia diventato una sorta di surrogato di fratello – quel fratello maschio che non ho mai avuto – è una verità vera. Dopo quei quindici giorni di prassi continuammo a vederci, tornò per due estati consecutive a trascorrere qualche giorno sulla costa, portò anche la sua fidanzata.
Mia nonna, ogni volta che tornava, si faceva trovare in prima fila, pronta ad abbracciarlo con le lacrime agli occhi. Avremmo addirittura trascorso una settimana a Parigi – in campo neutro – l’anno dopo, poco prima che la vita ci prendesse alle spalle come un Tir che non ti scorge mentre attraversi, noncurante, le strisce pedonali fischiettando.
Un giorno, per il suo compleanno – che tra l’altro coincide con il giorno della Santa Patrona civitasvetulina – mia madre diede fondo al massimo delle sue conoscenze culinarie sciorinando uno spaghetto con la vongola e, a seguire, cozze alla marinara. È tutt’ora una delle immagini che conservo con più nostalgia.
“How do you call them?”, chiede a mia madre. Che ovviamente cerca una traduzione vacante per la cucina. “Cozze”, risponde lei.
Magia dell’omofonia, “kotzen” in fiammingo significa “vomitare”. Non che il buon belga non sia stato avvezzo al mangiare “mosselen”, figuratevi! Un piatto istituzionale, nel Pays Plat (come Jacques Brel chiamava il Belgio). Ma certo, mi dicessero che tal piatto apparentemente familiare, nella lingua incomprensibile di un paese lontano, si chiami “vomitello”, beh, non nascondo che avrei delle remore ad assaggiare e sorridere contemporaneamente.
Immaginate allora l’espressione disgustata del buon Cristoforo, a tutta prima. Sconvolgetela poi nella mimica facciale sintomatica dell’appagamento dei sensi.
Che Chris non avesse i muscoli fu chiaro anche quel giorno. Finito di ingurgitare i muscoli di mare tracannò un bicchierone di latte scremato. “Per uccidere i microbi”, rassicurò chi lo guardava inebetito – nella peggiore delle ipotesi, con un conato di “kotzen” quasi quasi affiorante.
Quella polaroid mentale di un Chris senza muscoli né palle che beve latte dopo i muscoli, cozze, mosselen che dir si voglia, cell’ho fissata come un post-it sulla parete dell’ippotalamo. Che, per chi non lo sapesse, è l’area cerebrale dove albergano gli appetiti (sessuali e non).
Anni dopo, con Cristoforo, ho smesso di sentirmi.
In compenso, l’ippotalamo gli funziona bene, si direbbe.
Ora è sposato ed ha due figlioletti, e manda ancora cartoline d’auguri natalizi spolverando l’aneddoto delle cozze.
Non avrà i muscoli, ma almeno ha una buona memoria.
È bastato uno sguardo ed è stato amore a prima vista….
Quella cassa di fragolini coperta di ghiaccio al mercato era davvero irresistibile.
Ma come esaltare un pesce così fresco e dalle carni delicate senza rovinarne la fragranza?
S’è dato il caso che la contadina proprio di fronte all’uscita del mercato del pesce avesse dei fagiolini finissimi ed un piccolo cestino di lamponi provenienti dai sottoboschi dei Monti della Tolfa.
L’alchimia è subitaneamente scattata.
Ora vi racconto come preparare questo piatto:
Per prima cosa, sfilettare i fragolini e togliere con le pinzette le eventuali spine restanti.
Pulire i fagiolini e sbollentarli in acqua salata, scolarli poi in una bacinella con acqua e ghiaccio per fissarne il colore. Una volta freddi, condirli con sale, pepe, olio, scorza e un po’ di succo di limone e foglioline di menta.
Prendere una padella (o una piastra) e riempirla con uno strato abbondante di sale grosso. Aspettare qualche minuto che il sale si riscaldi, ed adagiarci i filetti con la pelle rivolta verso il basso e farli arrivare a cottura senza girarli. Basteranno pochi minuti….
Infine frullare i lamponi con un goccio di limone, passarli al colino ed emulsionare con poco sale, pepe, olio.
A questo punto non vi rimane altro che impiattare!
Un paio di dettagli: la cottura al sale può essere fatta sia con altre carni che pesci, e potete sbizzarrirvi ad aromatizzare il sale con le spezie secondo voi più congeniali al piatto scelto.
Ah, un'ultima cosa.
Se nel chiedere i fragolini vedrete una strana espressione dipingersi sul volto del pescivendolo, nessun problema!
Il fragolino è noto altrove, in Italia, anche con il nome di Fraolino o Fravolino, o Luvero. Ma soprattutto con l’ittionimo probabilmente più corretto: Pagello.
Pagello deriva da una storpiatura del vezzeggiativo di Parago (Paragello), a sua volte in discendenza diretta dal greco “phagros”, vorace, nome meritato dal nostro affezionato per la sua attitudine carnivora.
Se poi vi doveste trovare in Inghilterra, là lo chiamano Red Porgy.
In Spagna, invece, semplicemente Pargo...

Sarò onesto…
Resistere alla tentazione di citare il sushi, parlando di prodotti a base di crudità, è stato più semplice del previsto…
Sugli scudi mi sento di far finire invece – e qua l’amore sviscerato per tutto ciò che è hispànico ha decisamente prevaricato – il Ceviche, piatto sì radicato nella tradizione gastronomica dei paesi sudamericani tanto che in Perù è stato elevato al rango di Patrimonio Culturale della Nazione.
Ma cos’è il Ceviche?
A fianco della tradizione che lo vuole inventato lungo la costa pacifica del Sudamerica, esiste una scuola di pensiero secondo la quale questo piatto a base di pesce fresco marinato sia stato importato dai Conquistadores che, a loro volta, avevano attinto a piene mani dal patrimonio culinario arabo…
Ed anche a livello etimologico, ah!, l’origine è incerta. Si sa che in quechua, lingua indigena andina, questo piatto veniva chiamato siwichi. Altri sostengono, ancora, che derivi dalla parola viche (“tenero” in chibcha, altra lingua amerindia).
Gli ingredienti basici del ceviche sono pescato freschissimo (pesce bianco) tagliato in pezzetti di piccola dimensione, succo di limone, cipolla rossa alla julienne, aglio e peperoncino, sale.
Tradizionalmente, il pesce deve esser pescato all’amo e non servendosi di reti, affinché la carne non subisca traumi.
Nell’antico Perù per la preparazione del ceviche si utilizzava il succo fermentato di tumbo (Passiflora Mollisima), frutto autoctono.
Durante l’Impero Inca, invece, il pesce veniva macerato con la chicha, bevanda ottenuta dalla fermentazione del mais (e che la signora andina della foto sembra gradire particolarmente!).
Viene spesso accompagnato con pannocchie tostate o foglie di lettuga, oppure – specie al Nord – da legumi.
Il succo prodotto dal mescolare i vari ingredienti viene chiamato leche de tigre, e, nella tradizione popolare, viene raccomandato come colazione per i nottambuli o come afrodisiaco (e sui mille modi di dire/fare/baciare a letto e in cucina, bella la digressione di qualche giorno fa di GialloZafferano).
Il “latte di tigre” viene chiamato “latte di pantera” quando al pescato si aggiunge un crostaceo (Anadara tuberculosa), detto Conchiglia Nera, che si può trovare solo lungo la costa Pacifica del Sudamerica.
Nel "Monolocale" è arrivato, da parte degli amici, un regalo veramente di 'Gusto!!!! :)))