giovedì, ottobre 30, 2008

Al Monastero di Monte San Biagio ricordandoci che "dobbiamo morire"

(avvertenza per il lettore. Questo post non rispetta i crismi della scrittura sul blog. Non è rapido. E' più come una gita fuori porta alla domenica, senza preoccupazioni, senza nessuno che ci corre dietro. Al cinema e dal dottore non si va mai di fretta, diceva sempre mia nonna. Perciò, se andate di fretta, skippate. Magari tornate con calma, o sbocconcellate un po' per volta. E' la storia di un viaggio. Di una giornata speciale. E di persone speciali)


I cacciatori di cinghiale non potevano aspettarsi domenica migliore per l’anticipo della stagione venatoria. Ai confini della macchia, nel Parco del Monte Subasio, ce ne sono a frotte. Le pettorine arancioni rilucono tra il fogliame aggiallito. Raggi di sole nemmeno troppo timidi si posano sulle canne delle carabine. Alcuni si sono piazzati, di posta, sulla strada sterrata che s’inerpica sul colle.
Da una delle curve che serpenteggiano nei boschi spunta la panda quattro per quattro di Enrico, quindici anni di onorato servizio – “è quasi maggiorenne”, ti dirà orgoglioso – a far su e giù per i sentieri della Località Lanciano, una manciata di chilometri più a nord di Nocera Umbra.
Quando è giunto nelle terre di San Francesco, Enrico, aveva optato per un fuoristrada di quelli superaccessoriati. Dismesso senza rimpianti l’anno seguente. L’italica arrampicatrice non tradisce mai.
Quella di Enrico, di Marcel, del collettivo che porta avanti l’avventura del Relais Monastero San Biagio, dopotutto, è una storia di dismissioni. Di cambi d’abito e d’abitudine. Come quando molli il suv per l’utilitaria rustica.

Alle porte di Assisi siamo arrivati inseguendo la suggestione di una birra assaggiata tempo prima, la Gaudens, una sera a cena da Enrico Pezzotti.
Una delle quattro birre non pastorizzate, artigianali par excellance che vengono prodotte nel micro(davvero)birrificio del Monastero. Salvo poi scoprire che la produzione brassicola non è che la punta di un iceberg di eccellenza, gastronomica, ricettiva, umana.
“Per uno come me, cresciuto con il profumo di malto nell’aria, avvicinarsi alla birra è stato fin troppo facile” ti confida Enrico, bresciano trapiantato nel cuore verde d’Italia, alludendo alle reminescenze fanciullesche delle cotte della Wuhrer, “che oggi la trovi solo nei cantieri”.
Dieci anni fa, quando l’avventura del Relais muoveva appena i primi passi, l’universo dell’homebrewing emetteva i primi vagiti; i ruggiti sarebbero arrivati solo più tardi. “Così ci facciamo le prime brassate in casa, coi paioli di rame rubati alle mogli ed i mestoli di legno. Poi pentole più grandi, e mestoli più grandi”, ti confida, mostrandoti l’upgrade de visu. Oggi ne brassano due ettolitri, ed il desiderio sarebbe quello di decuplicare.

Perché le birre dell’Antico Monastero San Biagio piacciono. Quattro tipologie, tutte o quasi a suggerirti che il mastrobirraio nutra una certa passione per la Germania. Una weizen, la Verbum; una bohemian pils, la Gaudens; una dunkel, la Amber.

E poi la Monasta.
“In Belgio fanno l’Abbazia. Noi siamo in un Monastero, e facciamo la Monasta”.
Semplice e lineare come l’aforisma trappista, “ricordati che dobbiamo morire”, che ripeterà più volte, Enrico, accompagnandolo con una fragorosa risata, d’argentina vitalità.

“L’idea di base è quella di accorciare al minimo la filiera e giungere a fare una birra con ingredienti a chilometro zero. Dopotutto, uscendo dal Monastero, hai tutto lì, a portata di mano. C’è l’acqua di Nocera Umbra, famosa dai tempi dei Romani; c’è il nostro orzo distico, che a breve malteremo in una malteria poco distante; il miele lo producono le nostre api, erbe officinali non ce ne mancano”.

Nei tini di fermentazione, la birra natalizia sta per nascere in tutta la sua prorompente vitalità, aromatizzata al miele ed alle foglie d’alloro. Giovanni di Pietro Bernardone, avesse brassato, non avrebbe fatto diversamente.

Sulle eleganti etichette delle birre troneggia l'ichthýs stilizzato, “identico a quello inciso su un architrave del monastero”. Quando, quindici anni fa, il monastero di San Biagio è stato strappato all’incuria ed al fogliame che l’aveva digerito rilegandolo all’oblio, Enrico e gli altri hanno assurto quel simbolo ad egida di una forma mentis schietta, pulita, sincera. La loro.
E pensare che in quella chiesa intere generazioni di assisani sono stati battezzati, comunicati, cresimati, si sono sposati. “Ogni tanto”, ci racconta Enrico, “li invitiamo tutti qua. E vedeste quante lacrime”. I ricordi riaffiorano meglio tra quattro mura che trasudano familiarità. Così come è difficile non sentirsi pervasi da un senso diffuso di benessere quando, dalla terrazza del Relais, getti l’occhio sulla valle e più in là, fin dove può arrivare, mentre un silenzio ovattato t’avvolge tutt’attorno. Nella sala d’accoglienza del Relais, un notebook connesso alla Rete è l’unica finestra sul mondo. D’altronde, quassù, se ti piglia il telefonino sei fortunato. Se non ti piglia, lo sei di più.



Meno male che in quel frangente, pigliava. “Marcel, siamo a pranzo da te”. Ci inerpichiamo ancora per clivi scoscesi, insenature strette, sentieri boschivi. Ogni tanto un indicazione, perlopiù l’istinto di abbandonarsi al paesaggio. Nel viaggio non conta la destinazione, dopotutto, diceva qualcuno.
L’Osteria di campagna La Tavola dei Cavalieri la raggiungi inforcando un bivio. L’altra soluzione era “allevamento”.
Nei boschi del Parco del Monte Subasio pascolano allo stato brado maiali neri di razza italica. “Che per fortuna ancora non sono scesi a sfrugugnare”, assicura rincuorato Marcel indicando i vitigni di sangiovese appena piantati.

Marcel si definisce franco-siculo-emiliano “…umbro”. Forgiato da un coacervo di tradizioni ed esperienze, del Monastero di Monte San Biagio s’è letteralmente innamorato. E non l’ha lasciato più. Del collettivo, negli anni, in tanti hanno preso parte. Altri dopo un po’ hanno mollato. Non è facile abituarsi al cambio di abiti ed abitudini, ma è un po’ come votarsi alla vita monastica. Con tutti i pro e nessun contro. Il segreto sta nella volontà di vivere bene. Perché tanto, prima o poi, “ricordati che…”. Capito.

A tavola si stappa una Gaudens e si sbocconcella da un tagliere sul quale prosciutto, sella – la parte superiore della schiena del suino –, capocollo, pancetta e guanciale, nonché l’immancabile ciauscolo – che ci ricorda la marchigianità del Mastro Norcino –, tutti dei maiali allevati a San Biagio, fanno bella mostra di sé. Bocconi di polpa di spalla, prosciutto, pancetta tagliata al coltello ed insaccata nel budello gentile prima di essere affumicata al fuoco di camino, alimentato a legna e bacche di ginepro, intervallano un sorso e l’altro d’ambrosia, che dopo qualche minuto nel bicchiere ha assunto le invitanti nuances di un’arnia colma di miele freschissimo.

Tra i malfatti (ben fatti) ai porcini, le costine di maiale alla brace, panne cotte e semifreddi al croccante che si danno il cambio sulla tavola orcestrati dalle sapienti mani di Sverio, il cuoco, c’è tempo per evocare le teorie di Masaru Emoto – “per questo, alle nostre birre, facciamo ascoltare l’opera!” – ed Antonio Albanese nell’inerraggiungibile parodia dei sommelier. Perché alla fine, spazio per i voli pindarici non ce n’è. Meglio concentrarsi a vivere come vogliamo. Dopotutto, “ricordati che…”.

E allora, visto che dai Campi Elisi non fuggiremo, non vogliamo farlo prima d’aver assaggiato anche un po’ di miele di castagno, o meglio una stilla di marmellata di morici, o perché no di pere. Tutte provenienti dal Parco. Tutte buone e pulite. Anche se sui barattoli non troverete mai la dicitura “prodotti biologici”. “Questa dovrebbe essere la norma. Semmai dovrebbero essere le industrie a spiegarci cosa c’è nei loro prodotti”, e non ti saresti aspettato uscita più spettacolosa, da Enrico.

Quando il momento del commiato si avvicina, quasi quasi ti verrebbe da buttare il cellulare nel cestino, incrociare le gambe sulla staccionata e perderti nel silenzio del tramonto. Indosseresti un laico saio francescano cambiando volentieri, per sempre, abiti ed abitudini. Rimarresti lì per sempre, ad assaggiare quanto di buono la vita, le persone, la terra sanno offrirti.

I ragazzi del Monastero San Biagio insegnano che rubare un sogno e farlo proprio, coltivarlo, abbracciare la via giusta è possibile, financo facile.
Dopotutto, come mollare un fuoristrada per una panda quattro per quattro.






1 commento:

Anonimo ha detto...

Questa visita purtroppo l'ho mancata di un soffio, porca...ma ci saranno novità da Gennaio con queste "visite" ai birrifici.
Vedrai te cosa oraganizzeremo! Cmq mi ci tocca andare priam o poi.
Report come sempre godibilissimo, ma d'altronde la scrittura "non" è proprio il tuo forte! :P
Ciao a presto, Mirko