La scorzona, e mai accrescitivo fu più idoneo, è quella di M.
M è il mio pantagruelico collega.
Gli invidio i vent’anni che ha, la spensieratezza e la leggerezza d’animo che indossa con la stessa nonscialanza delle cravatte d’ordinanza.
M è quello che diresti un casinista, un affastellatore, un inguaribile combinagrane. Disordinatopasticcioneperennementeinsicuro, detto così, tutto d’un fiato per enfatizzarne la veridicità.
Logico che gli esordi di un rapporto lavorativo con M non potessero essere dei più semplici.
Perché M, proprio come Marino e Domenico, crede nell’interscambio gastronomico tra colleghi.
Soprattutto quando gli spieghi qualcosa, ad M, che M non sapeva fare. Si sente debitore.
E scatena la dinamica d’antan del baratto.
“Bhé [nel dialetto di M l’acca va letta come un’aspirata velare – ventisei esami di linguistica, ecco a cosa servono], quanno se rivedemo te porto un po’ d’abbòjele”.
“Di cheee?”.
“D’abbòòòòjeleee”.
“E che sono, st’abbòjele?”.
“Bhe, le rafane, come le chiamate voe?” [gli abbòjeli – o rafani che dir si voglia – nella terra di M costituiscono un ingrediente immancabile del piatto di punta, l’acquacotta].
Promessa mantenuta, il giorno dopo si presentava con un bel cesto di rafani.
Spiegazione, debito morale.
Ripagato stavolta con un luminescente Scorzone.
Lo Scorzone, per chi non lo sapesse, è il parente povero del Tuber Melanosporum, il celeberrimo e pregiato Tartufo Nero.
In realtà lo scorzone si chiama Tuber Aestivum, poiché cresce in estate; emana un buon profumo fungino (bell’aggettivo) ed ha il peridio (brutto nome) rugoso, a verruche piramidali sporgenti (voi lo mangereste un tartufo dopo aver saputo che ha una scorza verrucosa?).
Di più dell’instant-culture wikipediana, al momento, non so dirvi.
Nell’attesa di spolverarne copiose grattugiate su un risotto, sentitamente ringrazo M, sotto la cui Scorzona dura si cela un cuore tenero.
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