martedì, novembre 14, 2006

I SUONATORI


L’appetito è per lo stomaco ciò che l’amore è per il cuore.
Lo stomaco vuoto rappresenta il fagotto o il piccolo flauto, in cui brontola il malcontento o guaisce l'invidia; al contrario, lo stomaco pieno è il triangolo del piacere oppure i cembali della gioia.
Quanto all'amore, lo considero la prima donna per eccellenza, la diva che canta nel cervello cavatine di cui l'orecchio si inebria e il cuore ne viene rapito.
Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita, e che svanisce come la schiuma di una bottiglia di champagne.

Chi la lascia fuggire senza averne goduto, è un pazzo.

(G. Rossini)


Ci alziamo dalle sedie solo dopo aver poggiato gli strumenti.

Con una mano sul petto, l’altra dietro la schiena, raccogliamo gli sparuti applausi con un inchino d’altri tempi. Bissiamo il rituale, nella speranza che qualcuno, anche un solo temerario, si alzi in piedi dedicandoci un tributo convinto.

Quando il sipario si chiude, facciamo ancora in tempo a vedere la signora dal trucco vistoso risvegliarsi dal torpore che l’ha attanagliata per tutta la durata dello spettacolo.

Bella vita, la nostra.
“Sempre in giro”, ci dicono “chissà quanti bei posti vedete”.
Vero.
“E le facce delle persone, gli applausi, gli inchini…”.
Beh. Insomma.
“Gli ingaggi! Le soddisfazioni!”.
Macché.

Il fatto è che certi ensamble sono fuori moda. Devi sbatterti per esibirti su platee di periferia, dove al teatro si va solo per essere ammirati mentre si entra al teatro, con la pelliccia nuova e la perla ricevuta a Natale. Poi, quando si spengono le luci, nessuno ti vede. Lì si scatenano gli istinti più atavici.
E noi,
avatar svolazzanti tra le poltrone, avvertiamo la noia trasudare dal velluto rosso, solidificarsi in un tutt’uno con la nostra mesta rassegnazione.

Il post-spettacolo, per fortuna, è l’appendice frizzante delle agrodolci ripercussioni della performance.
Nell’osteria di turno, affoghiamo il sopraggiungere della notte con schiamazzi e trangugiamenti, strimpellii e scampanellii, strombazzamenti e chiacchiere. Risate. Sorsate profonde.

Lontani dall’epopea solitaria del musicista geniale e riluttante, ci compenetriamo l’un l’altro, noi e i nostri antipodi, gli avventori paonazzi e le cameriere discinte, il cuoco, il padrone di casa.

Ci porgiamo la mano e la guancia, proni a mangiare ed amare, ché mangiare in ultima istanza è amare.

Ce lo dice il cuoco, mestierante come noi che ha fatto dei suoi strumenti protesi inamovibili.

Con fare disinibito estrae dal cilindro tecniche primordiali tramandatesi di generazione in generazione, mescolando alchimie magiche, componendo arie sontuose con il semplice combinare elementi spiccioli, come un musicista fa con le note. Curandosi bene di sminuzzare semibiscrome, sbucciare minime e semiminime, dosare tempi di cottura e pause da quattro quarti, mentre nel calderone si cuociono a fuoco lento diesis in salsa di bemolle.

A fine serata, sotto le lampade illuminate e le mosche che vi ronzano intorno, sui dolci declivi collinari, rimaniamo noi, con gli strumenti abbandonati sulle panche e una canzone triste da intonare, forse un fado, forse no.

Siamo sazi e gonfi di noi.

A dormire, noi suonatori, vorremmo non dover andare mai.


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