lunedì, giugno 04, 2007

Crudi (o quasi) alla meta... al mare!


Sarò onesto…

Resistere alla tentazione di citare il sushi, parlando di prodotti a base di crudità, è stato più semplice del previsto…

Sugli scudi mi sento di far finire invece – e qua l’amore sviscerato per tutto ciò che è hispànico ha decisamente prevaricato – il Ceviche, piatto sì radicato nella tradizione gastronomica dei paesi sudamericani tanto che in Perù è stato elevato al rango di Patrimonio Culturale della Nazione.

Ma cos’è il Ceviche?

A fianco della tradizione che lo vuole inventato lungo la costa pacifica del Sudamerica, esiste una scuola di pensiero secondo la quale questo piatto a base di pesce fresco marinato sia stato importato dai Conquistadores che, a loro volta, avevano attinto a piene mani dal patrimonio culinario arabo…

Ed anche a livello etimologico, ah!, l’origine è incerta. Si sa che in quechua, lingua indigena andina, questo piatto veniva chiamato siwichi. Altri sostengono, ancora, che derivi dalla parola viche (“tenero” in chibcha, altra lingua amerindia).

La Real Academia Española suggerisce una discendenza dall’arabo ﺳكباج (sikbāg), che si riferisce alla conservazione ottenuta per mezzo di liquidi ad alta acidità, come l’aceto o il limone. Sembrerebbe infatti che le donne moriscas catturate come bottino di guerra dai cattolici a Granada mescolassero succo di arancia amara o limone al pesce crudo.


Gli ingredienti basici del ceviche sono pescato freschissimo (pesce bianco) tagliato in pezzetti di piccola dimensione, succo di limone, cipolla rossa alla julienne, aglio e peperoncino, sale.


Tradizionalmente, il pesce deve esser pescato all’amo e non servendosi di reti, affinché la carne non subisca traumi.


Nell’antico Perù per la preparazione del ceviche si utilizzava il succo fermentato di tumbo (Passiflora Mollisima), frutto autoctono.

Durante l’Impero Inca, invece, il pesce veniva macerato con la chicha, bevanda ottenuta dalla fermentazione del mais (e che la signora andina della foto sembra gradire particolarmente!).


Viene spesso accompagnato con pannocchie tostate o foglie di lettuga, oppure – specie al Nord – da legumi.


Il succo prodotto dal mescolare i vari ingredienti viene chiamato leche de tigre, e, nella tradizione popolare, viene raccomandato come colazione per i nottambuli o come afrodisiaco (e sui mille modi di dire/fare/baciare a letto e in cucina, bella la digressione di qualche giorno fa di GialloZafferano).


Il “latte di tigre” viene chiamato “latte di pantera” quando al pescato si aggiunge un crostaceo (Anadara tuberculosa), detto Conchiglia Nera, che si può trovare solo lungo la costa Pacifica del Sudamerica.


L’accompagnamento par excellance è con la chicha morada, ma anche una birra a bassa fermentazione - per me - non sfigurerebbe!

4 commenti:

Sigrid ha detto...

interessante.... mai fatto del resto! Uno di questi giorni mi dovrò pure deidere :-))) (tanto per cambiare dei crudi giap ;-)

Massimiliano Fattorini ha detto...

interessante davvero, e interessante tutti i riferimenti, bravo e grazie.

quasi quasi visto che usavano la pssiflora proverei a marinare con i passion fruits ma non so se sarà la stessa cosa.

max
http://lapiccolacasa.blogspot.com

Daniela @Senza_Panna ha detto...

si impara sempre qualcosa, bravissimi

Lara ha detto...

ciao! grazie per il testo. mi sono permessa di metterlo nel mio blog, ovviamente ti ho citato. complimenti Lara
www.laramexico.blogspot.com