Come parziale discolpa, vi regalo un divertissement sul connubio cibo-gioco del calcio...
Tra l'altro, questo ed altri racconti sul mondo pallonaro più verace - ed in tal senso la foto è significativa, quanto fascino emanano i campetti spelacchiati di periferia lontani dal clamore e dallo sfavillio del calcio milionario... - li trovate ad un passo di click qua.
Quando l’autobus giunse nel parcheggio antistante il rettangolo di gioco, gli dissero: “Quello di oggi è un campo di patate”. Patate o barbabietole, per lui, contava poco.
L’importante era che tutto scorresse liscio come l’olio. Certo, aveva messo in conto gli scontri fisici, gli sfottò, la brutalità di certi tackle. Quelli sono il pepe del calcio. Avrebbe portato con sé un po’ di sale, in un sacchetto, nascosto nei pantaloncini. “Le patate, con sale olio e pepe”, pensò tra sé e sé, “sono insuperabili”.
Nello spogliatoio indossò i calzoni. Erano più unti del solito, e la mozzarella filata scivolava via lenta sulle cosce, fino all’altezza della rotula, dove un carciofino s’era cristallizzato ed emanava brillii iridescenti. “Con questi calzoni”, pensò tra sé e sé, “siamo fritti”.
Entrarono in campo sotto una pioggia battente. L’erba, verde, fresca, emanava sentori di insalata cappuccio. Il fango splendeva d’un bruno ambrato come aceto balsamico.
Faticò non poco ad entrare nel ritmo della partita. Il terzino avversario, che non era uno stinco di santo, intervenne duro sui suoi, di stinchi. Per un attimo, si vide destinchizzato, con la parte di gamba mancante in un piatto di terracotta, adornato da crauti. D’altronde, la sua ex moglie glielo diceva spesso che era un porco.
La partita scorreva senza sussulti. Poi, con un colpo di genio, il nostro affezionato riuscì a scartare un avversario, poi un secondo, un terzo. Si ricordò di sua mamma, dei rimproveri per i capricci quando sedeva a tavola, di ogni singola volta in cui gli aveva detto “pensa ai bambini africani” se lasciava un pezzetto di petto di pollo a languire in un angolo del piatto. Re-incartò due degli avversari. Passò la palla chiedendo la triangolazione, la ottenne, superò il portiere… Ma che gol si mangiò!
Mangiare un gol è un’esperienza gastronomica sublime. I gol mangiati hanno la stessa magnificenza organolettica di quei frutti di mare galiziani chiamati percebes, che tutti dicono “quanto son buoni! Quanto son buoni!” e tu non riesci a realizzare cosa avranno mai di così buono. Poi un giorno ti ritrovi dalle parti di La Coruña e ti imbatti in quei pescatori gallegos che rischiano la vita pur di strappare agli scogli una di quelle prelibatezze. Lì scopri perché son così buoni.
Se ne mangiò un bel po’ di gol, quel giorno.
Ma alla fine riuscì a sollevare al cielo la coppa.
Era grande, bella, profumava di arancio e pistacchi, con quella sua consistenza cartilaginea così invitante…
Quella sera, con quella coppa, fecero dei panini superbi.
L’importante era che tutto scorresse liscio come l’olio. Certo, aveva messo in conto gli scontri fisici, gli sfottò, la brutalità di certi tackle. Quelli sono il pepe del calcio. Avrebbe portato con sé un po’ di sale, in un sacchetto, nascosto nei pantaloncini. “Le patate, con sale olio e pepe”, pensò tra sé e sé, “sono insuperabili”.
Nello spogliatoio indossò i calzoni. Erano più unti del solito, e la mozzarella filata scivolava via lenta sulle cosce, fino all’altezza della rotula, dove un carciofino s’era cristallizzato ed emanava brillii iridescenti. “Con questi calzoni”, pensò tra sé e sé, “siamo fritti”.
Entrarono in campo sotto una pioggia battente. L’erba, verde, fresca, emanava sentori di insalata cappuccio. Il fango splendeva d’un bruno ambrato come aceto balsamico.
Faticò non poco ad entrare nel ritmo della partita. Il terzino avversario, che non era uno stinco di santo, intervenne duro sui suoi, di stinchi. Per un attimo, si vide destinchizzato, con la parte di gamba mancante in un piatto di terracotta, adornato da crauti. D’altronde, la sua ex moglie glielo diceva spesso che era un porco.
La partita scorreva senza sussulti. Poi, con un colpo di genio, il nostro affezionato riuscì a scartare un avversario, poi un secondo, un terzo. Si ricordò di sua mamma, dei rimproveri per i capricci quando sedeva a tavola, di ogni singola volta in cui gli aveva detto “pensa ai bambini africani” se lasciava un pezzetto di petto di pollo a languire in un angolo del piatto. Re-incartò due degli avversari. Passò la palla chiedendo la triangolazione, la ottenne, superò il portiere… Ma che gol si mangiò!
Mangiare un gol è un’esperienza gastronomica sublime. I gol mangiati hanno la stessa magnificenza organolettica di quei frutti di mare galiziani chiamati percebes, che tutti dicono “quanto son buoni! Quanto son buoni!” e tu non riesci a realizzare cosa avranno mai di così buono. Poi un giorno ti ritrovi dalle parti di La Coruña e ti imbatti in quei pescatori gallegos che rischiano la vita pur di strappare agli scogli una di quelle prelibatezze. Lì scopri perché son così buoni.
Se ne mangiò un bel po’ di gol, quel giorno.
Ma alla fine riuscì a sollevare al cielo la coppa.
Era grande, bella, profumava di arancio e pistacchi, con quella sua consistenza cartilaginea così invitante…
Quella sera, con quella coppa, fecero dei panini superbi.
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