AGENORE
Agenore, a dodici anni, era dotato di un senso critico che lasciava sbalorditi, tanto da indurre a chiedersi se avesse davvero dodici anni.
D’altronde, lui era stato forgiato per un avvenire diverso da tutti gli altri. A partire dal nome.
Carezzando il pancione, i suoi, avevano pensato all’unisono che per quel frugoletto prossimo a venire al mondo bisognava stendere una sceneggiatura curata e ricca di colpi di scena. Per quel motivo avevano optato per un principio pirotecnico.
Al resto ci aveva pensato lui.
A tre settimane dalla nascita aveva rifiutato il latte materno con una smorfia di disapprovazione.
A due mesi aveva preso l’abitudine di suggere dal biberon latte scremato di mucche selezionate, insaporito da due schegge di stecca di cannella e biscotti di cereali tostati.
Fortuna che non sapeva ancora parlare.
Non sarebbe durata a lungo, e difatti il problema fu ovviato quando compì un anno.
Lì cominciarono i problemi. “Quetto no, cacca”, “no vojo, brutto”, “cchifo”, “cacca”, “brutto”.
Uno ad uno si erano meritati la bocciatura i manicaretti più squisiti dell’infanzia, dalla mela grattata all’omogeneizzato, dal brodo vegetale alla pastina in brodo.
Agenore, che ci crediate o meno, sopportava a malapena addirittura le stelline.
Gli enfants prodige, a tutta prima, suscitano stupori divertiti, strappando applausi a scena aperta. Poi, dagli e dagli, risultano stucchevoli. E si cominciano ad incolpare i genitori, rei di averlo “viziato troppo, il moccioso”. Loro, pater et mater, che sapevano d’aver creato un mostro, respingevano le accuse, “non è vero”, ripetevano.
Se Agenore era così, era tutto merito di Agenore.
Con i primi dentini spuntò un delirio d’onnipotenza inquietante.
Ancora non camminava quando con il girello si spostava da un angolo all’altro della cucina per giudicare inadatte tecniche di cottura di indaffarate domestiche. Accennava appena un’andatura a carponi e già rifilava sonori calci nel sedere a maîtres chocolatiers di indubbia fama. Assaporava personalmente, intingendo il ditino nei barattoli di pregevole fattura, spezie consegnate dai quattro angoli del globo. Poi puntava lo stesso minuscolo ditino verso cuochi e mestieranti della cucina, scagliando improperi ed anatemi.
La manina come strumento di condanna: pollice verso, indice accusatorio, medio alzato.
Agenore era diventato intrattabile.
La mattina, al risveglio, una stuola di camerieri gli si parava dinnanzi augurandogli il buongiorno ed incrociando le dita dietro le spalle. Uno ad uno sollevavano il coperchio del vassoio, glielo porgevano ed attendevano impauriti il responso.
Quando gli ingredienti lo trovavano soddisfatto, sopraggiungeva un’ulteriore discriminante.
Il nome.
“Muffin”, ricorda la muffa.
“Ciambellone”, troppo nazionalpopolare.
“Plum Cake”, troppo internazionale.
“Torta Paradiso”, ma va all’inferno!
“Torta della nonna”, eh, sa di rancido come una vecchia!
“Torta…” basta!, esclamava seccato.
La madre di Agenore, disperata, non sapeva che pesci pigliare.
Un giorno, un’anziana che passava per il paese, venuto a sapere del bimbo temuto, avvicinò la signora. “Io so cosa farebbe contento suo figlio”, le disse. Parlarono per una manciata di minuti. Si sorrisero. La vecchina scomparve così come era giunta, silenziosamente, senza fragore.
La mamma di Agenore indossò un grembiule turchino ed iniziò a dosare gli ingredienti.
Utilizzò un po’ di farina presa in prestito dal mulino dei sette capretti; uova dalla gallina che le deponeva solo d’oro ma che, per quella volta, fece uno strappo alla regola; zucchero proveniente dal venditore ambulante di zucchero filato del Paese dei Balocchi. Infine aggiunse una mela tagliata a pezzettini fini. Ma dato che l’aveva ricevuta da una strega persasi per il bosco, pensò che forse sarebbe stato meglio lavarla per bene.
Il dolce così finito fu presentato ad Agenore all’alba seguente. Nella stanza, nessun cameriere. Solo sua madre, profumosa di mamma, con quell’odore inconfondibile che solo le mamme nelle mattine d’inverno, fredde e piovose, riescono ad avere. Il profumo di un abbraccio che ti consente di saltare la scuola.
“Ti ho preparato il dolce del mattino, amore di mamma…”, gli disse sorridente, carezzandogli i capelli.
Agenore diede un morso, poi un altro. Annuì con la testa, poi le gettò le braccia al collo.
Malelingue dicono che versò anche una o due lacrime di bimbo.
Insomma, una favola con tanto di happy ending.
Dopotutto, a dodici anni, è lecito credere alle favole, anche se sei Agenore.
Ingredienti
350 g di farina
250 g di zucchero semolato
1 bustina di lievito
4 uova grandi
100 g di burro
¼ di latte
sale
burro e farina per la tortiera.
Preparazione
Accendete il forno a 180°. Fate fondere il burro. Setacciate la farina con il lievito dentro una ciotola ampia e miscelatela con lo zucchero e un pizzico di sale. Fate la fontana e mettetevi le uova intere, il burro fuso e il latte non troppo freddo. Mescolate bene il tutto con un cucchiaio di legno quindi versate il composto in una tortiera da 26 cm di diametro imburrata e infarinata e mettete il dolce nel forno già caldo. Lasciate cuocere per circa un’ora quindi sformate e fatelo raffreddare su una gratella.
È un dolce molto semplice e facile, ideale da inzuppare nel caffelatte. Può essere preparato anche con il mixer, raccogliendo tutti gli ingredienti e frullando per un paio di minuti.
Io ho aggiunto all’impasto una mela tagliata a piccoli dadini leggermente infarinati per non farli affondare e l’ho spolverata con zucchero a velo e cannella.
Una colazione davvero fantastica!
5 commenti:
Questa è buonissima... quante volte l'ha fatta mia mamma per me i miei fratelli da mangiare la mattina con il té.
Ciao.
Ne mangerei una fetta domani mattina!!!
;-) Ricorda la torta paradiso... della mia mamma!!
Agenore e la sua storia sono carinissimi!!!
finalmente un apprezzamento anche alle parole che bollono in pentola nel monolocale...
tnx tulip
chiara, tié :P
un comment anche per me!
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