venerdì, febbraio 23, 2007

Le sensazioni sprigionate da certe righe...

...sono indimenticabili. Bastano una manciata di parole per ritrovarsi immersi in un contesto polisensoriale, che ti graffia l’anima.

Quando lo traduci, un romanzo, l’innamoramento è più viscerale, e più profondo.
Per rimanere fedele all’intentio auctoris, quei profumi, quegli odori, quei fumi azzurrognoli e quelle note musicali devi ricrearle di fronte a te, aggregarti alla festa. Brindare con la camicia slacciata e la mente vuota. Fino a notte fonda. Fin quando ce n’è.

Questa è la vita all’interno dello zuccherificio San Lucio (da Écue-Yamba-Ó, di Alejo Carpentier, in via di traduzione)

Nelle locande si scaricano lastre di carni essiccate e tranci di baccalà; da un sacco strappato piovono a cascata ceci sulla testa di un maiale che strilla. Due isolani troneggiano sull’etichetta di un pacco di farina di mais tostato. L’hotel americano lascia che il suo bar venga verniciato d’un falso mogano. Ci sono sigarette straniere con le effigi di principi strabici. Panetti di andullo avvolti nella carta argentata. Madonne ed odalische. Puttane che ostentano scudi reali, Khedives o mocassini indios. I caffé di bassa lega e le cantine vengono addobbati. Centinaia di alcolici vengono situati negli scaffali. L’acquavite di canna, che puzza di terra. I rum nelle damigiane. I vetri brinati, torbidi, bottiglie-acquari che racchiudono un germoglio di zucchero candito. Su alcune etichette ballano militari vestiti di scotch whisky. Carta bianca. Carta dorata. Le stelle del cognac si trasformano in intere costellazioni. Ci sono torinos fabbricati a Regla e liquori d’anice imbottigliati in fiaschi patriottici con nastri celebrativi. Medaglie. “L’Esposizione di Parigi”. “Il migliore”. Una litografia che mostra una cavallerizza con un vestito di lustrini e stivali a mezza gamba, seduta sulle ginocchia di un anziano lussurioso e pluridecorato. Non manca addirittura il Mu-kwe-lò di riso, conservato in panciuti recipienti di fango scuro giunti al caseggiato, dopo cinquanta giorni di viaggio, via San Francisco, avvolti in manifesti del partito nazionalista cinese. La sete è epidemica. La bevanda stempera i nervi di quelli che entreranno quotidianamente nel ventre del gigante diabetico.

Per vari giorni, uno strepitio crescente turba le vie del paese. Gli inni religiosi, ululati dalle giamaicane, si alternano con il lavorare dei contadini scandito da un incisivo ticchettio di claves. Il fonografo del negozio cinese eiacula canzoni di amori cantonesi. Le grasse zampogne di qualche galiziano discutono con le fisarmoniche asmatiche dell’haitiano. Le pelli dei bongo vibrano per simpatia, scoprendo l’Africa nei canti della gente di Kingston. Si gioca a tutto: ai dadi, alle carte, al domino, al ventilatore usato come roulette, alle mosche che volano sopra montagnole di zucchero turbinato, ai galli, alla padella, alle tre spallette, al “cochino ensebao…”. (Gli haitiani "si giocano il sole prima dell’alba", opinano i contadini cubani). E un bel giorno c’è una nuova animazione nelle vie del caseggiato. La disciplina si fa sentire in mezzo al disordine. L’ambiente si vela di una preoccupazione. La luce, gli alberi, le bestie, sembrano attendere speranzosi qualcosa. La brezza si lascia ascoltare per l’ultima volta nei pressi della fabbrica. Si attende…

Andullo: tabacco da masticare
Khedives: medaglie arabiche
Torinos: cioccolatini
Mu-kwe-lò: piatto cinese
Claves: strumento musicale
“cochino ensebao…”: gioco popolare che consiste nell’inseguimento e tentativo di cattura di un maialino unto

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